In questa sezione, attraverso un migliaio di oggetti esposti, si raccontano e si approfondiscono pratiche antiche legate alla quotidianità della sopravvivenza, essenziali all’organizzazione alimentare ed economica delle popolazioni locali.

Nella sezione c’è anche una vetrina legata alla moda, dove è evidenziato l’utilizzo di piume e manufatti in pelo, esempi di un primo squilibrio ecologico.

Tecniche di caccia e pesca

Questa sezione dell’Ecomuseo racconta ed approfondisce pratiche antiche attraverso un migliaio di oggetti esposti, tra cui vari tipi di trappole, curiosi richiami per uccelli e una vasta gamma di accessori per la pesca, oltre a una collezione di fucili da caccia e di guarnizioni per la moda.

Non mancano le descrizioni e le metodiche dei vari tipi di pesca, praticata nella nostra zona con le diverse tipologie di reti che sono esposte alle pareti, assieme a nasse intrecciate in salice e fiocine di forme e dimensioni differenti; il tutto per illustrare un’arte legata alla quotidianità della sopravvivenza.

Un lavoro di raccolta articolato e complesso, che parte dall’ambiente naturale fatto di paludi, fiumi, boschi, risorgive, filari e scarpate, rifugio di numerose specie di animali e, contemporaneamente, fonte di sostentamento per le popolazioni delle valli Oglio e Chiese.

Un tempo verdure selvatiche e selvaggina, in determinati periodi dell’anno, erano un’integrazione alimentare importante, che seguiva i ritmi delle stagioni, i cicli riproduttivi, gli spostamenti della fauna in funzione degli habitat e delle migrazioni. Era un rapporto antico con la natura, essenziale all’organizzazione alimentare ed economica delle popolazioni locali.

Nella tradizione popolare, pesci, anfibi, molluschi, gasteropodi e uccelli di ogni tipo e specie, oltre a mammiferi di ogni dimensione, contribuivano alla necessità di proteine animali. Per soddisfare questo fabbisogno, in particolari momenti dell’anno, collaborava tutta la famiglia.

Si trasmettevano alle nuove generazioni le conoscenze del territorio, i segreti, le osservazioni, le abilità manuali e gli espedienti relativi alla caccia e alla pesca. Un sapere trasmesso come un gioco ai ragazzi e praticato con abilità dagli adulti.

I ragazzi in primavera si esercitavano alla ricerca di nidi (endàa a gnai), alla caccia di rane e di piccoli pesci come i ghiozzi o gli spinarelli (bòs e źerli) o lumache da mangiare, anche nella stagione invernale.

Gli adulti pescavano prede più consistenti come pesce gatto, anguille, lucci e carpe, con l’uso di strumenti e tecniche più complesse quali nasse (nasi), oppure i diversi tipi di reti come èl balansén a sedöc, li sbürléri, i stramàc o i tanbor, dove il loro uso presupponeva una conoscenza precisa di ogni anfratto di fossi e fiumi, dei comportamenti e abitudini di ogni varietà di pesci.

Pure l’uccellagione era un’arte. Si catturavano un merlo, un fringuello, un verdone da allevare in casa, non solo per godere del loro canto, ma da utilizzare poi come richiamo. Chi usava il fucile era più fortunato: andare a caccia al capanno (èndàa a caşòt) con i richiami, ad allodole (loduli) con la civetta, ad attendere gli uccelli che si appollaiavano nei vivai di gelsi (a pulèr ‘ndè li murèri), o pavoncelle (suìghi) nei prati, oppure a caccia di anatre (nadròt) sul fiume, con la spingarda alle prime luci dell’alba.

Tutto questo presupponeva una maestria, acquisita con l’esperienza e l’osservazione, oltre all’abilità nella costruzione e posa di vari tipi di trappole, come la tagliole piccole o grandi e gli archetti (i sèp, li taiöli, i archèt) usati per cacciare vari tipi di uccelli e mammiferi e per difendersi da predatori come la volpe, la faina, la martora o la donnola.

Anche il linguaggio dialettale è ricco di testimonianze secolari: abbiamo perciò fissato alcuni modi di dire lungo il percorso didattico. Non dimentichiamo che anche la moda dell’Ottocento testimonia queste pratiche antiche. Pelli, pellicce di rari animali, piume di garzette, aironi, paradisee e struzzi hanno adornato cappelli battaglieri e civettuoli delle signore.

Le guarnizioni più preziose erano segno non solo di eleganza, ma anche di prestigio sociale, oltre ad essere state protagoniste, in quel secolo, del primo disastro ecologico che ha portato alcune specie all’estinzione.

Chi ha vissuto prima della totale trasformazione e contaminazione dell’ambiente, certamente ha avuto con la natura esperienze vive e tangibili, oggi impensabili.

Molte cose sono cambiate, il cannetese che attraversava a nuoto il fiume in una mattinata gelida, imbiancata dalla neve, per cacciare le cornacchie scese dalla montagna e posate sulla sponda opposta tra i salici o nel pioppeto, è solo un lontano e sfumato ricordo, quasi una favola. Sono pure scomparsi il mestiere del pescatore, del lontraro e del cacciatore di talpe per pelliccia.

Anche i profumi di pesce fritto o di complicati intingoli che uscivano da finestre e comignoli per invadere le vie del paese, fanno parte della memoria personale.

Piatti e ricette, un tempo diffusi, scandivano le stagioni: anguille o tinche coi piselli, carpa ripiena al forno, frittate di rane, luccio in bianco, pesce in carpione, lepre in salmì sono diventati piatti ricercati.

Tecniche di pesca come quella con lo “sparviero” (rete dalla forma circolare appesantita ai margini da sfere di piombo) presupponeva una grande abilità per il pescatore che lo lanciava, ed era usato particolarmente in primavera, quando i pesci si raggruppavano per la riproduzione.

Questa antica pratica era in uso principalmente nelle acque del Chiese, fiume dal fondo ghiaioso. È una tecnica ancora esercitata in molte parti del mondo, dall’Oriente all’Africa e all’America Latina.

Nel frattempo, molte specie di animali sono scomparse e con loro sensazioni ed emozioni particolari. Nell’attesa e nell’auspicio di un maggior equilibrio tra attività umane e natura, ci auguriamo che l’Ecomuseo possa incrementare almeno un rapporto dialettico tra le identità e la cultura di chi ci ha preceduto, con le nuove generazioni.