Storia di una attività plurisecolare di una comunità. Dalla bonifica della palude al sistema orticolo e successivamente al vivaio. Una cultura vivaistica rappresentata da più di 100 aziende, con oltre 1000 addetti e oltre 3000 specie di piante coltivate.

Questa sezione ricostruisce non solo le origini di una produzione, ma pone l’accento su come, in particolare per Canneto, l’attività vivaistica sia radicata nella propria storia. Canneto e il territorio dell’Ecomuseo, infatti, sono un vero giardino botanico che rappresenta, all’interno del Parco Oglio Sud, una peculiarità caratterizzante del paesaggio.

Le radici del vivaismo si perdono nella storia del territorio, legate probabilmente alle Abbazie di S. Benedetto di Leno e di S. Tommaso di Acquanegra.

Il Comune di Brescia, nel 1217, accentua il controllo del territorio tra l’ Oglio e il Chiese con interventi di colonizzazione agraria. Il sistema orticolo si diffonde nelle aree vicine al paese al posto delle antiche paludi, in terreni freschi, ricchi di limo e torba, facilmente irrigabili, sin dal Medioevo, con le acque del Naviglio.

Nel Quattrocento ha un grande sviluppo la coltivazione del gelso per la produzione del baco da seta. Numerosa è la documentazione relativa alla coltivazione dei terreni a vivaio. Nel Seicento il Balcianelli scrive degli “orti fruttiferi di Canneto”, mentre nel Settecento, un censimento catastale documenta una numerosa presenza di ortolani, che svolgono la professione anche in piccoli appezzamenti.

La produzione vivaistica decolla e si sviluppa a partire dai primi del XX secolo, dilatando la produzione anche sulla riva destra del fiume Oglio. Tuttora il vivaismo è in stretta relazione con la peculiarità del territorio e del fiume.
Il mestiere dell’ortolano, nel passato, veniva svolto con strumenti semplici, essenziali, come la zappa, la vanga, il rastrello, le roncole, i coltelli e i forbicioni affilati.

Il campo era diviso in tanti rettangoli (aiuole), con dimensioni diverse (quadèr) in funzione del tipo di coltivazione; c’erano rettangoli in cui si seminava, altri in cui si riproducevano alberi attraverso talee o trapianti in filari. Gli alberi dovevano poi “maturare” almeno due anni. Per una buona riuscita del prodotto, i segreti della coltivazione venivano tramandati, in famiglia, di generazione in generazione: dalla raccolta del seme alla sua conservazione, dall’individuazione del periodo migliore per la semina alla piantumazione delle talee, dall’innesto alla potatura.

Vangare, concimare, sarchiare, seminare, trapiantare, zappare erano, e in parte lo sono tuttora, le quotidiane mansioni dell’ortolano; un mestiere che rientra tra le poche professioni che sono sopravvissute nel tempo e che si sono evolute in quest’ultimo secolo, attraverso nuovi dettami produttivi e le nuove esigenze di un mercato internazionale.

Un lavoro antico, di cui una vera specializzazione, è la pratica dell’innesto, che presuppone non solo abilità manuali, ma sensibilità, conoscenze meteorologiche (le fasi lunari, l’umidità, il vento) e tecniche specifiche. Sono molti, infatti, i modi in cui si possono eseguire gli innesti: a spacco, a occhio, a gemma, a triangolo, a doppio spacco inglese, a becco di luccio e queste elencate non sono che alcune delle numerose varianti che si possono eseguire sui giovani alberi, in momenti prestabiliti dell’anno.

La crescita e la forma della pianta, invece, si controllano attraverso la pratica della potatura, mentre la commercializzazione del prodotto avviene a radice nuda o con la zolla.
Fin dalle origini, i piccoli coltivatori sono riusciti a sfruttare al meglio la loro limitata porzione di terreno, in media circa 10.000 metri (tre biolche), sia per i bisogni familiari producendo legumi e verdure che coltivando piante da frutto, alberi tutori per la vite e il gelso per la produzione serica.

La cultura intensiva poi, con l’avvento dell’industrializzazione, si è evoluta, ed è cominciata la produzione di piante per le scarpate delle ferrovie, per i nuovi viali delle città che si ampliavano, per il verde delle autostrade e per i parchi e i giardini di tutto il mondo.

Oggi sono più di tremila le specie di piante che sono coltivate e prodotte nei vivai cannetesi e del territorio circostante.

La fantasia e l’imprenditorialità degli operatori del settore valorizzano ulteriormente questa attività, che ormai è da considerarsi una vera tradizione, che si rinnova e si trasforma, tesa al raggiungimento della “perfezione produttiva” e sempre pronta a rispondere alle richieste del mercato. Solo attraverso queste dinamiche, la tradizione sopravvive diventando cultura non solo di una comunità, ma di un territorio più vasto, che comprende i paesi e le province vicine.

Si tratta di una produzione in continua espansione, che oggi coinvolge dieci Comuni con circa 3500 ettari coltivati, suddivisi in un centinaio di aziende con più di mille addetti.
Si producono milioni di piante latifoglie, che soddisfano non solo i bisogni nazionali, ma, con l’esportazione, anche quelli internazionali.