La tradizione del gioco fatto in casa rientra nel contesto della tradizione orale. Dalle origini del gioco e del giocattolo sino alla grande trasformazione provocata dall’industria. Un sapere antico stratificato nei secoli, dai molteplici risvolti didattici e pedagogici, come l’acquisizione della “manualità” propedeutica ed iniziazione al lavoro.

La tradizione del giocattolo fatto in casa

Nella cultura popolare, il giocattolo si può definire tale solo prima dell’avvento dell’industrializzazione, in quanto esso non era un oggetto da acquistare, ma da realizzare tra le pareti domestiche.

Durante l’infanzia il gioco e i giocattoli aiutavano i bambini a crescere, a scoprire e comprendere la propria cultura di appartenenza. Attraverso il gioco, infatti, si apprendeva che le stagioni scandivano non solo il lavoro, ma influivano anche sulle tecniche, sulle modalità e sulle tipologie del giocattolo e del giocare.

Il gioco era una sorta di palestra di vita: si acquisivano la destrezza e le abilità manuali, il colpo d’occhio per le future mansioni lavorative. Si può dire che giocando si lavorava e si partecipava, da protagonisti, al calendario festivo e rituale della comunità.

In più, giocando insieme, i ragazzi si confrontavano, si comunicavano mansioni, segreti, espedienti, perplessità, dubbi e paure.

Nel gruppo si imparava a conoscersi, nel rispetto delle singole capacità e ruoli. Uniti si affrontavano le avventure, le esperienze più pericolose, legate alla natura o all’acqua. In certi periodi dell’anno, giocando, si contribuiva anche al sostentamento della famiglia con la cattura di rane, pesci gatto, passeri o con la raccolta di lumache, di erbe commestibili o frutti selvatici, oppure con lo svolgimento di mansioni domestiche come il rammendo o il ricamo.

Era una forma pedagogica semplice, stratificata e tramandata da millenni, essenziale, “integrale” per raggiungere lo scopo educativo.

In primavera, per esempio, si realizzavano fischietti con rametti di salice, poiché quello era il momento propizio per tagliare, incidere e approfittare dell’abbondanza di linfa, per staccare la corteccia dal “cambio”: era un gioco che preludeva al lavoro dell’innestatore.

La primavera era anche la stagione ideale per costruire aquiloni, fionde, cerchi, monopattini, fucili a elastici e trottole, ma anche per raccogliere erbe commestibili e arrampicarsi sugli alberi alla ricerca dei nidi, destrezza, quest’ultima, utile per poi andar a raccogliere frutta e, quando si era più grandicelli, per salire sull’albero della cuccagna in occasione della fiera.

D’estate si privilegiavano i giochi legati all’acqua. Il fiume, la spiaggia, i canali e i fossi erano i luoghi della ricerca e dell’avventura. Con le mani si imparava a pescare, a rincorrere chiozzotti e girini. Tra le canne si andava alla ricerca dell’ingegnoso nido della passera cannaiola che, quasi cullato, si alzava e abbassava a secondo del movimento dell’acqua. Si trascorrevano ore e ore a giocare nell’acqua, sfidando anche il vecchio fiume, lento e sornione, ma a volte anche traditore.

Numerosi erano i giochi che si facevano sulla spiaggia, ma anche nelle piazze. Ricordiamo il volano, palla avvelenata e la lippa (sciangol). Barchette di tutte le forme, biglie, archi, palle di ogni foggia e palloni, più o meno colorati, sono solo alcuni esempi dei numerosi giocattoli che si costruivano in questa stagione.

Con le piogge i giochi si trasferivano sotto i portici: ricomparivano le classiche figurine, i bottoni e le vecchie monete, le noci e i tappi. Si giocava ai quattro cantoni, alla cavallina oppure a “un, due, tre, stella”. Nelle giornate di vento riapparivano gli aquiloni e altri meccanismi come mulini, aeroplani e nostrani automi che sfruttavano l’energia del vento. Questi ultimi oggetti, collocati nell’orto, lo decoravano con fantasia, svolgendo anche la funzione di spaventapasseri.

L’inverno era contrassegnato dai giochi sulla neve. I fossi attorno al paese diventavano piste di ghiaccio per scivolare, mentre la stalla era il luogo caldo dove ritrovarsi per raccontare o ascoltare storie e leggende. Era questa la stagione in cui i nonni o i genitori costruivano qualche giocattolo dalla tecnica più complessa, da regalare per S. Lucia. Costruire una slitta, un carro armato col rocchetto, il fantasmino, Giovannino arrampicatore, la rana salterina, l’atleta che fa le capriole, le galline che beccano incessantemente, la trottola o il serpentello in cartoncino, realizzare piccole bambole in stoffa o in lana, abiti per bambole, imparare a ricamare o a fare l’orlo a giorno sono solo alcuni esempi della numerosa gamma di attività ludiche di questo periodo dell’anno.

Nel calendario rituale delle tradizioni che coinvolgeva tutta la comunità, anche i bambini, attraverso il gioco, diventavano protagonisti. Per Pasqua preparavano le uova colorate, correvano un giorno intero trascinando per terra le catene del focolare per lucidarle, suonavano raganelle e trabaccole e contribuivano alla realizzazione del falò in piazza. Durante le feste della primavera si battevano grosse latte “le tolle”, (il “corteo” era composto da ragazzi di diverse età che scherzosamente annunciavano fidanzamenti e matrimoni). Sempre nello stesso periodo gli adolescenti si esibivano nella scalata dell’albero della cuccagna.

Anche la tradizione gastronomica coinvolgeva i ragazzi: in autunno, per esempio, aiutavano mamme e nonne nella preparazione del budino d’uva (sügol) o dei dolcetti duri, detti “ossa dei morti” (stracadènt).

S. Lucia, il 13 dicembre, era il giorno tradizionalmente dedicato al gioco: pochi erano i giocattoli donati, ma tante erano le attenzioni da parte di tutta la famiglia.

In questo giorno, in particolare, il gioco diventava partecipazione, attesa, mistero e quindi mito. La stessa atmosfera si respirava anche durante il Natale, con la preparazione minuziosa e fantasmagorica del presepe o con la rituale accensione nel camino con il grande ceppo. Durante la Vigilia di Natale, i ragazzi davanti al fuoco ascoltavano lo scoppiettio della legna e, osservando le monachine che risalivano lungo la cappa, prodotte abilmente dal bastone del nonno, ascoltavano rapiti i racconti fantastici e imparavano filastrocche centenarie: era quello il momento ideale per trasmettere i valori della grande cultura popolare.

Anche l’uccisione del maiale era un momento di festa per la famiglia. Per l’occasione il papà regalava al bambino l’astragalo, cioè l’osso del piede del maiale: i ragazzi lo infilavano in una cordicella e per farlo fischiare lo facevano roteare (fürlo o firlinghén).

Nel Centro di Documentazione dell’Ecomuseo sono stati raccolti oltre duecentocinquanta giocattoli di una volta: sono oggetti semplici, costruiti con materiali poveri (carta, legno, cera, argilla, stoffa, lamierino e corda), ma dai valori antropologici intensi.

Sono certamente finiti i tempi in cui frotte di ragazzi vocianti si rincorrevano per le vie del paese sino a tarda sera.

I ragazzi non hanno più le tasche colme dei “tesori” di un tempo: biglie, trottole, noci o figurine, l’immancabile e prezioso coltellino o l’inseparabile fionda.

Strumenti tradizionali come coltelli, forbici, seghe, martelli, chiodi sono stati sostituiti dal video del computer, genius loci di ogni soluzione.

Certamente un’epoca si è conclusa, ma il futuro è tutto da costruire e da inventare. Riscoprire, quindi, le nostre radici può essere utile per riflettere e progettare nuove modalità relazionali.