Alla scoperta della propria identità attraverso il costume popolare e la nascita della moda. Il costume, oltre a rappresentare l’identità del territorio, ricostruisce tecniche e sistemi di vita di antica tradizione, oggi scomparsi.

Simboli di cultura, eleganza, di appartenenza di classe, tramite fra natura e arte.

Il costume nella tradizione popolare.
L’origine della moda.

La sezione dell’Ecomuseo dedicata al costume è una raccolta che, per la ricchezza dei materiali, possiamo definire unica e singolare, anche a livello regionale.

Un centinaio di abiti, oltre a un migliaio di accessori tra cappelli, ventole, ventagli, parasoli, spilloni e biancheria di diverso uso, raccontano l’evoluzione del costume tra il 1850 e il 1940.
Anche il costume è una testimonianza storica stratificata nei secoli, in stretta sintonia con le peculiarità ambientali.

Lo evidenziano la produzione delle materie prime come lino, canapa, seta e lana, e la loro trasformazione nei laboratori posti lungo i corsi d’acqua del territorio. Basta pensare alle garzerie, alle tintorie, alle concerie e ai laboratori di vestiti, cappelli e scarpe documentati sin dal Seicento e antesignani delle future industrie.

Nella tradizione popolare, l’abbigliamento rappresenta ed esprime il linguaggio di una comunità. Riflette, infatti, numerosi valori e comportamenti, divenendo segno di appartenenza al territorio, traducendosi in forme, colori e materiali tessili.

Un codice complesso, tramandato da esperienze secolari, che si dilata coinvolgendo l’uomo nella sua totalità.

Oggi, attraverso lo studio dei manufatti della “tecnologia familiare”, del folklore e del linguaggio dialettale, è stato possibile, in buona parte, ricostruire un patrimonio culturale. Se è difficile ricomporre le peculiarità del costume del territorio tra l’Oglio e il Chiese, più fattibile diventa delineare un mosaico fatto di comportamenti, relazioni sociali e sistemi produttivi.

Dai materiali analizzati risulta che il costume femminile, sino alla fine dell’Ottocento, è il più conservatore, poiché legato alle condizioni della donna.

Tra gli uomini si vedevano i segni del cambiamento legati ai nuovi mestieri industriali, alle donne, invece, spettava la tradizione del focolare e la conduzione della casa. Non è molto lontano il ricordo dell’amministratrice della famiglia contadina “la residùra”, che nella tasca del grembiule conservava le chiavi della casa.

I costumi recuperati sono essenziali, tessuti in casa su base bianca o beige; il rosso e il blu sono le tonalità più usate per tingere le matasse prima della filatura. Solo il fazzoletto incrociato sulle spalle o sulla testa era acquistato al mercato, insieme a qualche merletto o a passamanerie, a nastri di seta con i fili per il ricamo e a bottoni. Lentamente la geografia commerciale dello scambio s’intreccia e porta inesorabilmente verso i dettami della moda.

Non sono lontani i tempi in cui il lavoro era scandito dalle stagioni, quando la cultura della manualità in funzione della sopravvivenza era un’arte, dove le tradizioni attraverso le ritualità della festa erano un momento importante, nel quale la comunità esprimeva le proprie identità. Era un’organizzazione della vita cadenzata da ritmi semplici e talvolta lenti, ma complessa per le operazioni da svolgere. Sino a qualche decennio fa, anche a scuola, nelle cosiddette attività integrative, si poneva l’acquisizione delle abilità manuali tra gli obiettivi didattici dell’apprendimento.

Imparàa a sgalètàa, şgarşàa, tènşèr e filà, a cuşèr, a guciàa, ricamàa, ènbastì, taiàa, rifilàa, fudràa, mèndàa, cioè imparare a raccogliere i bozzoli, cardare, tingere, filare, cucire, gugliare, ricamare, imbastire, ritagliare, rifilare, foderare, rammendare, erano mansioni tradizionalmente femminili, un apprendimento culturale importante da tramandare di generazione in generazione, poiché era scontato che determinate acquisizioni, utili per il lavoro quotidiano, fossero più importanti che saper leggere e scrivere.

La prima ricchezza all’interno della famiglia stava nell’essere autonomi e autosufficienti in tutto.

Una vita essenziale, senza orpelli, dove la dote doveva bastare per tutta la vita, dove èn qual punt è na pèsa (qualche punto e qualche pezza) erano componenti essenziali dell’economia familiare; un’economia confermata dal detto l’è na duna gnanca buna dè mèndàa, cioè è una donna nemmeno in grado di rammendare, quindi priva di abilità, non adatta a formare una famiglia.

Anche il dialetto era ricco di espressioni, di colori, di metafore e modi di dire ispirati alle mansioni femminili, oggi in totale disuso, segno che la lingua si modella e si trasforma in funzione dei mutati comportamenti e dei nuovi stili di vita. Chi avrà la pazienza “archeologica” di leggere termini e proverbi di altri tempi, avrà la possibilità di riscoprire un linguaggio fantasioso, gioioso e creativo, quasi in antitesi alle dure condizioni della vita d’un tempo.

Rattoppi e rammendi, che sono vere opere d’arte, sono pure anticipazione di espressioni poetiche dai ritmi musicali, privi di sincopi e dissonanze, di una cultura che ha anticipato codici artistici riconducibili a Mondrian e all’ermetismo astratto, ma sono anche il cadenzare poetico di una preghiera, oltre che espressione dell’amore e della dedizione verso la propria famiglia.

Per le classi popolari, l’abito era realizzato con grandi sacrifici: dalla raccolta delle fibre alla produzione con telai di casa, il vestito era tessuto e confezionato seguendo le usanze della cultura “orale”, imperniata, in particolare, sulle individuali abilità manuali.

La borghesia, il ceto emergente e la nuova classe imprenditrice potevano invece scegliere tessuti e mode più congeniali alla posizione raggiunta.

Ecco quindi che l’abito, emblema delle nuove classi sociali, assume non solo nuovi stilemi ed estetismi, ma diventa il portavoce delle mode internazionali. L’abito diventa la sintesi concreta e oggettiva “dell’apparire”, metafora culturale del proprio tempo, oltre che segno di appartenenza, esaltazione di un’idea, rappresentazione di un momento “laico” o “spirituale”.