Le erbe, nella cultura popolare, hanno evidenziato che nel passato esisteva una forte coesione uomo-natura attraverso l’alimentazione, il linguaggio e l’artigianato.

L’intendimento di questa sezione è di rinvigorire e stimolare abitudini, comportamenti, memorie storiche; è soprattutto un tentativo di riconciliazione con un mondo che, speriamo, non sia perduto del tutto.

La flora del territorio. 

Le erbe commestibili nella tradizione popolare.

Scarpate, argini, rive e capezzagne, meandri abbandonati come l’Oglio morto di Runate e Gerra Gavazzi o le Bine, oppure le anse del Chiese che modellano le profonde scarpate del terrazzamento, piccole zone umide alimentate dalle risorgive, sono gli ultimi lembi in cui sopravvivono come “verdi reperti archeologici” antichi ecosistemi.

La felce palustre (Theljpteris palustris), la scopa d’acqua (Hottonia palustris), la ninfea bianca (Nymphaea alba), il giacinto fiorito (Butomus umbellatus), la castagnola (Scrophularia ombrosa) o la centaurea scacciafebbre (Centaurium erythraea), sono alcuni esempi singolari dello strato erbaceo della zona umida.

Il sigillo di Salomone (Polygonatum multiflorum), la colombina (Coridalis cava), il cipollaccio dei campi (Gagea arvensis) o la felce aquilina (Pteridium aquilinum), sono invece esemplari peculiari e rari che caratterizzano, in particolare, i margini del terrazzamento.

Nell’Ecomuseo, la flora del territorio è stata schedata con 500 immagini, oltre a un erbario e un fogliario. Un semenzaio e una xiloteca arricchiscono ulteriormente il patrimonio scientifico del Centro di Documentazione.

Nella storia botanica del territorio, una particolare attenzione è stata rivolta alle erbe commestibili.

Con “erbe commestibili selvatiche” si identificano le verdure non ottenute attraverso processi di coltivazione intensiva, in campi o orti, con vari processi tecnologici e chimici, bensì verdure reperibili in zone naturali o cresciute spontaneamente.

Sono certamente lontani i tempi in cui l’uomo, durante l’anno, raccoglieva queste verdure per alimentarsi.

Sbarcare il lunario o vivere alla giornata erano modi di dire, che racchiudevano uno stile di vita privo di certezze, nel quale l’arte di arrangiarsi faceva parte della quotidianità.

Ecco che il supermercato della sopravvivenza era a portata di mano lungo fossi, scarpate, argini e capezzagne. “Na pistadina”, ossia grasso di maiale tritato e impastato con erbe aromatiche, come aglio, prezzemolo, cerfoglio, santoreggia, rosmarino, cipolla, ruchetta, era uno dei piccoli segreti utili per insaporire cibi poveri, come il pesce o la semplice polenta.

È ancora nella nostra memoria l’immagine di personaggi locali che, come professione, esercitavano l’attività della pesca, della raccolta di erbe e funghi. Portatori di una profonda cultura ambientale, conoscitori del proprio territorio, oggi si direbbero esperti in ecosistemi, essi ritmavano le loro attività seguendo l’intercalare delle stagioni, con tutte le varianti meteorologiche che, ovviamente, influenzavano il sistema idrografico e la vegetazione stessa.

Si potrebbe parlare di un vero calendario della raccolta delle erbe commestibili, che cominciava alla fine di febbraio, con le prime avvisaglie di primavera; continuando, in particolare per le erbe di largo consumo, sino a giugno; mentre, per le aromatiche, la raccolta proseguiva sino all’autunno, quando iniziava quella di tuberi, radici e funghi.

Alla Valerianella (“galinèla”) diffusa nelle ortaglie, lungo le seriole e nei pioppeti, seguivano il cipollaccio col fiocco e l’erba cipollina (“sigulòt”), diffusi nelle scarpate dei terrazzamenti, in luoghi incolti dal terreno sciolto e sabbioso o nei vigneti abbondanti di aglio selvatico. I germogli di queste erbe puntavano verso l’alto ed era facile individuarli.

Certamente la più diffusa era il tarassaco (Taraxacum officinale), ossia la “fugàda”, presente nei prati e nelle marcite dove cresceva più rigogliosa. Prima che il fiore del diavolo “fiùr dèl diaol”, (altro nome del tarassaco), dal vistoso portamento, sbocciasse, se ne raccoglievano a sacchi: cruda o cotta, condita in vari modi, con l’aggiunta di aglio era la verdura primaverile più usata. L’acqua di cottura, amarognola, era bevuta dai nostri vecchi, nella convinzione che fosse un valido sistema per depurare il sangue. Anche la radice, tostata nel camino, veniva utilizzata per integrare o sostituire il caffè.

Nelle capezzagne, lungo gli argini, nei terreni più asciutti, il radicchio “radèt”, cioè il (Cichorium inthybus), era tra le cicorie la più raccolta, perché gustosa e saporita.

Molto diffusa era quella con il fiore azzurro, oggi quasi scomparsa dal territorio, per l’uso di prodotti chimici.

Lungo gli argini, tuttora, sono presenti la carota selvatica “maigula” (Daucus carota) e la silene “strigol” o “èrba sciupètìna” (Silene gonfiata). La prima era mangiata cruda, la seconda, molto saporita, sostituiva gli spinaci.

Quasi un rito di iniziazione primaverile era la raccolta, germoglio dopo germoglio, del luppolo “luertìs” (Humulus lupulus). Era sufficiente una manciata di questi germogli per preparare una gustosa frittata o per condire un buon risotto.

Nelle valli, i fossi ricchi di risorgive ospitavano il fresco e tenero “crescione” (Nasturium officinale), che veniva gustato crudo, da solo o in insalata con altre erbe selvatiche, come il “piattello”.

Poi, con l’inoltrarsi della stagione, c’era l’imbarazzo della scelta: abbondavano rosolaccio (Papaver roheas) “li gareusuli”, la borsa del pastore (Capsella bursa pastoris) “li casètìni”, le ortiche (Urtica dioica) “li urtìghi”, gli asparagi (Asparagus officinalis) “sparis” o “li radètini”, il miagro (Rapistrum rugosum) “bericòcol”, il ravizzone “lansèr”, il “topinambur” (Helianthus tuberosus) e i frutti dell’alchechengi (Physalis alkekengi) “balunsén”.

Come in una tavolozza, per chi conosceva le erbe di un prato spontaneo, era facile individuarle e sceglierle per arricchire il minestrone.

Con le aromatiche c’era l’imbarazzo della creatività: per realizzare una frittata personalizzata e ogni volta ricca di gustosi sapori si poteva scegliere tra menta, cerfoglio, luppolo, malva, tanaceto, ecc.

Anche i ragazzi imparavano, attraverso il gioco, l’uso di certe erbe, come l’erba salina, dal frizzante pizzicorio, i germogli del biancospino, la dulcamara (Solanum dulcamara) “cavìc duls” o “lücamàra”, che in inverno era l’alternativa alla liquirizia, oppure la carota selvatica (Daucus carota) “maìgula”, che sostituiva la “cicca americana”.

Era un mondo articolato e complesso, che coinvolgeva anche i frutti selvatici: come i frutti del biancospino, le more o i prugnoli chègapoi, mori, brugnén, o i funghi come i chiodini, gli orecchioni “ciudèi” o “garganèli”.

Ricette semplici, in cui le verdure erano utilizzate nella realizzazione di minestre e minestroni o accompagnavano e insaporivano risotti e frittate. Verdure in insalate o cotte, radici, cipolle dolci o erbe aromatiche e piccanti, erano componenti naturali della cosiddetta “cucina dei semplici”. Con la specializzazione agricola e le coltivazioni intensive, certamente i problemi di carestie sono scomparsi. La nostra civiltà ha creato delle sicurezze, ci sono prodotti internazionali standard, ma forse abbiamo perso in genuinità e fantasia.

Anche il linguaggio orale e dialettale si è arricchito attraverso l’osservazione attenta, la raccolta stagionale e l’uso costante dei vegetali. Idiomi, metafore, semplici modi di dire, simbolismi coniati dalla civiltà contadina, esprimono messaggi che sono anche concetti di vita, sintesi di atteggiamenti, abitudini, tradizioni e insegnamenti.

Numerose espressioni dialettali fanno parte, ormai, del bagaglio dei ricordi di una “archeologia orale”.

Ricordando qui alcuni dei numerosissimi modi di dire tipici del dialetto della nostra zona, si intende soprattutto valorizzare questo patrimonio culturale linguistico, esemplare dimostrazione di quanto forte fosse il legame tra l’uomo e il mondo della natura.

L’è nasìt èn dè l’èrba alta = è nato nell’erba alta, protetto dalla famiglia, fortunato
I ga schisàt li sigùli èn dè i öc = gli hanno schiacciato la cipolla negli occhi, dispetto, provocazione
Tüti i ram i vanta la sò fòia = tutti i rami vantano le loro foglie, ogni famiglia esalta i suoi componenti
Pütòst vo a mangiàa l’èrba adrée ai fòs = refrattario ad ogni compromesso
L’èndàt èn pulvèr dè garòfol = è andato in polvere di garofano, scomparso, estinto, morto
I ga strènsìt li stròpi = gli hanno messo un freno
Èl ga strènsìt li stròpi = è morto
Ghet fat sumènsa = dove ti sei perso, hai messo le radici? Ti abbiamo aspettato tanto
L’èrba malva da tüti i mai la tè salva = la malva da tutti i mali ti salva, panacea per tutti i dolori
San cum èn curnàl = sano come un corniolo

La scienza però, saggiamente e fortunatamente, in questi ultimi anni, ha rivalutato il mondo vegetale considerandolo non più “con sufficienza”, ma come fonte di continue scoperte, anche per quanto riguarda le possibilità curative.

Non dimentichiamo, inoltre, che la vegetazione è stata fonte di ispirazione per l’artigianato e per l’arte: frutti e foglie riprodotti su festoni in legno o terracotta hanno decorato fregi, cornici e mensole, mentre ricami, realizzati a punto croce o con il tombolo con disegni di fiori e racemi, hanno impreziosito biancheria e quadretti votivi.

Infine, con la realizzazione dell’erbario con vegetali raccolti nel nostro territorio, non abbiamo approfondito gli aspetti terapeutici, anche se in taluni casi sono stati accennati. Nostro intendimento è stato rinvigorire e stimolare abitudini, comportamenti, memorie storiche: insomma, un tentativo di riconciliazione con un mondo che, speriamo, non sia perduto del tutto.