Attraverso la ricostruzione di uno spaccato di casa tradizionale di stampo ottocentesco, è possibile riscoprire, tramite la ricca esposizione di oggetti, la vita quotidiana di una famiglia contadina e la sua organizzazione.

La casa era anche intesa come bottega o laboratorio per numerose attività, come dimostrano i numerosi strumenti esposti di falegnami, bottai, carradori, fabbri, maniscalchi, intrecciatori, calzolai, ecc.

È questa una sezione ricca di manufatti, strumenti, macchine a volte estremamente semplici, brutalmente essenziali, senza orpelli, ma indispensabili alla vita e al lavoro quotidiano.

Sono presenti attrezzi e macchine, le cui notizie sulle loro origini si perdono nella notte dei tempi, ma che sono anche l’espressione di gesti radicati nella storia e nella memoria dell’uomo, che per secoli ha imparato a usare e scegliere legni e metalli per ogni mansione o esigenza.

È per questo che abbiamo ricostruito la sezione di una casa-bottega presentando le peculiarità strutturali che, per secoli, hanno animato lo spazio abitativo reale.

Uno spazio essenziale, ridotto a pochi ambienti. Al piano terra una grande cucina laboratorio, con pochi mobili come arredo: una credenza, un tavolo con sedie, un’angoliera, una stufa e le “macchine”, cioè il telaio (tèlèr), i filatoi (filarèl), l’impastatrice del pane (gramula) e la zangola (şangula).

La “Casa-laboratorio” è completata dalla vicina cantina in cui si produceva e conservava il vino, oltre ai salami e al cibo nel paramosche (la muscareula). Nel sottoscala il secchiaio (èl sicèr), lo spazio riservato per lavare e depositare le stoviglie nella cesta in metallo (la sistèla di piàt).

In questo spazio familiare non poteva mancare l’angolo degli antenati, posti a protezione della famiglia. È questo lo spazio che tradizionalmente era gestito dalla donna che, prima dell’industrializzazione, ha tessuto e filato, per tutta la famiglia, canapa, lino, lana e seta, confezionando con abilità vestiti, calze e camicie. Mani che hanno rammendato, rappezzato, orlato, ricamato e intrecciato fili come una preghiera.

La cucina è lo spazio dove si impastano il pane e la sfoglia, si preparano la polenta, il burro e il sapone. Ma è anche il luogo in cui la donna cannetese carteggiava giocattoli in legno, imbottiva gambe e braccia o cuciva vestitini per bambole.

È pure lo spazio riservato ai figli che, nella culla, nel seggiolone o nel carruccio “la curidura”, acquisivano i primi rudimenti della vita.

È anche il luogo dove il capo famiglia, dopo il lavoro nell’ortaglia o nella bottega, costruiva zoccoli, scale e sedie con la “cavra” (la particolare morsa in legno dei contadini) o intagliava piccoli giocattoli per i figli e intrecciava ceste.

Si accedeva quindi al piano superiore con una scala in legno: la camera da letto era in corrispondenza della cucina, per sfruttare il calore che dalla camera sottostante saliva verso l’alto.

Fino all’Ottocento, vi campeggiava un letto a baldacchino con tanto di tendaggi per proteggersi dal freddo in inverno e dagli insetti d’estate. Il letto era in assito, con il materasso imbottito con brattee della pannocchia del granoturco e biancheria di tela “gròsa” (tela pesante, grossa e ruvida) fatta in casa. Ai lati c’erano i comodini, con il vaso da notte o la “comoda” (sedia con grosso foro centrale con sottostante un vaso da notte); nel cassetto qualche libro di preghiere o semplicemente la corona del rosario e sul ripiano era appoggiata una piccola “bugia” con candela. Naturalmente non mancava l’acquasantiera (santareul). A capo del letto il quadro della “Sacra Famiglia” era a protezione dei coniugi.

D’inverno c’era anche lo scaldaletto con il trabiccolo e il piccolo braciere (la mònega cun la scaldìna). Poco distanti dal letto, c’erano la brocca, il catino e il secchio smaltati sul porta catino per la toilette del mattino. Completava l’arredo una cassa che conteneva la dote.

Talvolta d’inverno in queste grandi camere, ai travetti, si attaccavano cotechini e salami per la prima stagionatura oppure si depositavano alcuni strumenti usati dalla donna per sfibrare lino e canapa.

Nelle vicinanze spesso c’era la piccola incastellatura (scaléra) per l’allevamento del baco da seta, da seguire con grande cura e apprensione.

Una casa-laboratorio, dunque, attrezzata per sostentare la propria famiglia, quella famiglia che aveva il compito di garantire la continuità nella comunità in cui viveva.

Era uno spazio abitativo articolato, anche in rapporto alle esigenze lavorative stagionali.

Ravvivavano le stanze pareti dalle cromie spiccate e forti, realizzate con colori in polvere (terre, ossidi, blu ultramarini, ecc.) mescolati con calce e latte. Erano cromie cariche di pulsione, anche simbolica e forse rendevano più sopportabile una vita dura, essenziale.

I colori in polvere venivano acquistati dal “droghiere” e poi erano stesi con una grossa pennellessa rotonda. Alla fine della stesura venivano sfumati con la macchina nebulizzatrice usata per la vite. Fasce decorative sotto i travetti o composizioni a tappezzeria erano realizzate con mascherine di cartoncino intagliate in negativo e impresse in positivo con il colore utilizzando appositi tamponi o pennelli. Non si utilizzavano colori chiari e men che meno il bianco, considerato assenza di colore, quindi privo di vita. La calce bianca veniva usata in particolare per “disinfettare” gli ambienti.

Anche le imposte erano decorate con colori accesi e proteggevano piccole finestre dove i vetri, a volte rotti, erano saldati in casa con listarelle di piombo, altro esempio di una economia molto povera.

È in questo tipo di organizzazione che in seguito metteranno le radici le specializzazioni, i laboratori artigiani e
infine l’industria.

La bottega, infatti, è la seconda unità didattica espositiva della sezione. Numerosi strumenti e “macchine” testimoniano l’attività di falegnami, bottai, carradori, arrotini, rilegatori, fabbri, maniscalchi, intrecciatori, sarti, cappellai, calzolai, carpentieri, muratori, decoratori, imbianchini. Strumenti come il tornio a frusta, morse in legno come la cavra, seghe come la “refendina”, asce da carpenteria, sfibratori per il lino e
per la canapa, cardatrici, telai per la tessitura, piccole presse e altri macchinari ancora sono veri “reperti archeologici” dalle radici lontane, documentati talvolta ancora in epoca precristiana. Strumenti così funzionali che il loro uso si è protratto nel tempo sino a cinquant’anni fa.

Canneto, sin dalle sue origini medioevali, come altri paesi rivieraschi, ha sviluppato la sua economia, in particolare sul piano commerciale e artigianale lungo le vie fluviali, con le botteghe che utilizzavano la forza motrice dell’acqua.

È bene ricordare, inoltre, che sin dal Quattrocento a Canneto nasce l’esigenza di un grande Campo Fiera, fuori dalle mura del castello, che non era più in grado di ospitare la fiumana di gente (trentamila persone), che dalle città vicine partecipava alla fiera di S. Andrea.

Nel Seicento sono documentate numerose attività: sei mulini, una filanda per la seta e il lino, una tintoria, una segheria, una cartiera, un oleificio per produrre olio per illuminazione, laboratori tradizionali di candele e sapone. In più è rilevata la presenza di ceramisti, falegnami, fabbri, paroni, carpentieri e traghettatori.

Nelle inchieste austriache e napoleoniche si conferma un’economia artigianale e industriale molto florida con circa settecento persone occupate in numerose attività.

Il progetto espositivo, quindi, ha tenuto conto delle esigenze narrative, tecnico-scientifiche e antropologiche, senza tralasciare l’aspetto comunicativo. L’esposizione nei suoi vari aspetti, perciò, dovrebbe suscitare nel visitatore sensazioni e ricordi, oltre che far assaporare, specialmente ai più giovani, percezioni di atmosfere misteriose, quasi magiche, non la celebrazione “dell’oggetto”.